Ho conosciuto Quasimodo nel marzo del 1963, e in cinque anni di frequentazione assidua, fino all’ultimo giorno della sua vita, non ho fatto che verificare quanto il poeta e l’uomo coincidessero, quanto egli fosse incapace di fare conti superficiali con la propria coscienza e contemporaneamente quanto subisse la fioritura ingannevole degli inferni esistenziali
La poesia di Quasimodo è una poesia che non ammette definizioni a senso unico, come non le ammette l’uomo. Per la sua essenza ha ora l’aspetto di un sacrificio, ora di una preghiera, ora di una profezia. Qualche volta è un grido che vuol vincere la pazienza esistenziale. La sua parola non luccica mai inutilmente. E’ sempre sofferta, inquieta. Segue un itinerario di ricerca; e la ricerca è, fra le categorie mentali e dello spirito, la più difficile e aspra. Lo sapeva già Sant’Agostino che scolpì l’inquietudine con la ben nota sintesi: “Ci hai fatti per te, Signore; e il nostro cuore è inquieto fin che non riposa in te”.
Parlare dunque di Quasimodo, della sua spiritualità, ripercorrere il cammino delle attenzioni prestate a questo nostro mondo di angeli e di serpenti attraverso l’amplificazione lirica, è dunque tutt’altro che facile. Occorre “soffrire” con lui la fatica che fu costretto a compiere ogni volta che tentò di elevare i suoi deboli sensi a un grado più alto di potenza.
Parlare dunque di lui, della sua spiritualità, ripercorrere il cammino delle attenzioni prestate a questo nostro mondo di angeli e di serpenti attraverso l’amplificazione lirica, è dunque un’impresa dura. Sebbene non simile a quella che il poeta fu costretto a compiere ogni volta che tentò di elevare i suoi deboli sensi a un grado più alto di potenza. Operazione tutt’altro che indolore.
Lo studio della giovinezza quasimodiana, effettuato sulla documentazione più interessante di questo periodo, cioè sul Carteggio Quasimodo-Giorgio La Pira , ci dice che la cultura di cui era imbevuto l’ambiente familiare del poeta era di stampo cattolico tradizionale.
Su questa base si innestarono le letture della Bibbia, di Tommaso Moro, Campanella, Erasmo da Rotterdam, fatte spesso con gli amici della “brigata” di “Vento a Tindari” tra cui La Pira appunto e Salvatore Pugliatti, poi rettore dell’Università di Messina.
La Pira è stato l’amico prediletto di Quasimodo. Nelle molte lettere che i due si scambiarono c’è da parte del futuro sindaco di Firenze un insistere sulla forzatura della identità materiale per salire la scala luminosa della grazia; in Quasimodo invece c’è il dissidio problematico fra corpo e anima e l’impossibilità di aderire ai dettami di una rigorosa morale ortodossa. Scrive La Pira: “Il nostro proposito è la distruzione di noi stessi, – idea molto francescana – l’annientamento del mondo in noi”. Quasimodo, attraverso un linguaggio che anticipa molta poesia fino al 1930 – 1932, si pone in posizione critica nei confronti della morale e già comincia a sfidare se stesso nella ricerca di armonizzare gli opposti – la purezza e l’eros, la vita e la morte che definirà “non contrarie”.
Tutta la produzione che si dipana dai testi editi inediti o rifatti fino al 1932, testimonia questo movimento morale interiore con oscillazioni da un estremo all’altro.
Emblematica è la confessione della poesia “Si china il giorno” del 1930.
Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno,
serrato ad ogni luce.
Di te privo spauro
Perduta strada d’amore,
e non m’è grazia
nemmeno trepido cantarmi
che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto.
Si china il giorno
E colgo ombre dai cieli:
che tristezza il mio cuore
di carne!
La lirica è la risposta all’amico che lo invita a celebrare la Pasqua con il sacramento della penitenza e l’eucaristia. La scrisse con l’angoscia di un irragiungibile bene: il finale desolato è segnato da un esclamativo: “che tristezza il mio cuore/di carne!” Ci sono due soli esclamativi in tutta la poesia quasimodiana, questo e un altro nella lirica “I morti” – usati quasi per ex-clamare, far sortire quel benedetto e pesante cuore di carne dal suo buio.
Già a quell’epoca provava “un’ansia precoce di morire” e nel riconoscere la propria perfettibilità, si faceva strada in lui il sentimento della paura.
Nelle poesie di “Acque e terre” Dio è timore “di chiusa stanza”. Come abbiamo visto, egli ammette: “Di te privo spauro/perduta strada d’amore”.
Quasimodo non possiede l’orgoglio che consiste nel considerare se stessi come persone che non hanno bisogno di nulla, il che esclude qualsiasi pensiero di superomismo. In “Oboe sommerso” e precisamente nella poesia “Curva minore” ci sono molti elementi da cui si deduce il suo bisogno di Dio e il suo consegnarsi a lui. Implora: “Fammi vento che naviga felice” , poi vuole essere ridotto a seme che “sé esprima in pieno divenire”, e ancora chiede la catarsi “sì che cangi la pena in moto aperto”. Forse pochi sanno che ma questa poesia è dedicata a Eugenio Montale, simbolo dell’uomo moderno che pretende di vivere senza Dio (almeno questa era la semplicistica interpretazione data da Quasimodo alla produzione dell’allora suo amico ligure).
In queste poesie che chiamerò molto impropriamente giovanili la disputa con Dio ha un carattere di umiltà non ancora rassegnata a una speranza di rigenerazione.
Successivamente, in quella che si usa definire poesia civile – ed è l’opera scritta durante la guerra o, subito dopo, di fronte alla caduta della pietà – egli esprime il concetto della violenza come offesa della Croce, viene invocata come unico segno di salvezza. C’è infine, nell’ultima fase della sua poesia, un ripiegarsi su stesso per tessere il bilancio della propria vita, una resa al fato, una rassegnata pazienza che non è quella del saggio (come talora voleva apparire) ma del cristiano che aveva escluso da sé la Chiesa dell’ortodossia e si sentiva sospinto là dove non avrebbe voluto andare – perseguitato comunque, posso testimoniarlo, dall’idea di Dio.
La fede nel messaggio cristiano non viene mai messa in discussione da Quasimodo.
Da giovane La Pira lo invitava all’imitazione dei santi. Lui indulgeva alle letture dei Padri e dei filosofi, dei poeti come Jacopone da Todi al quale ha dedicato bellissime pagine. L’analisi delle esperienze umane sostituisce il credo dei dogmi. Nella raccolta “Erato e Apòllion” assistiamo al tramonto della speranza di salvarsi, sebbene ammetta che ancora la ricerca esiste e lo fa vacillare. “Io temo una vita”, scrive, “ognuno si scalza e vacilla in ricerca”. Nella raccolta “La terra impareggiabile” che è del 1955/58 il paragone dell’uomo sarà la terra, l’intelligenza laica che, come dice egli stesso, “non costituisce peccato” purché non dimentichi di agire prima di tutto “sull’interno fuoco delle coscienze”.
Prima di questa fase era stato spinto a cimentarsi con un testimone diretto della parola di Cristo, e a aveva tradotto dal greco il Vangelo secondo Giovanni (1944-46).
Il greco lo aveva appreso a Roma, appena salito nel continente dalla nativa Sicilia grazie alla frequentazione e all’amicizia con monsignor Mariano Rampolla del Tindaro – uno studioso insigne, amico tra l’altro di G.B. Montini che lo ricordò nella lettera di congratuzioni inviata a Quasimodo in qualità di arcivescovo di Milano, quando ebbe il Nobel.
Ha scritto il poeta a proposito di questa traduzione: “Una continua frequenza della filosofia mi ha orientato verso la parola di Giovanni, ma non è questa la sola ragione. Giovanni era il discepolo prediletto di Gesù, la sua giovinezza aveva ste di cultura e la sua generazione era attenta alle discipline spirituali. E non importa che fosse nato in una casa di pescatori. Anche vicino al trogolo, con in mano le ghiande per i maiali, l’uomo si ritrova con sé e medita le più alte conquiste dello spirito”.
Da quella prova era uscito, a suo dire, con una grande forza interna che gli aveva consentito di fare chiarezza sul suo rapporto con Dio. Quel grande processo teologico fra Gesù e il mondo lo aveva preso di mezzo, lo aveva fatto riandare a una zona della sua formazione spirituale, soprattutto a Sant’Agostino che rimase una delle letture del suo capezzale – almeno fino a quando Agostino trova Dio, vale a dire finché dura la sua ansiosa ricerca.
Giovanni si affaccerà di nuovo sulla strada del poeta nel periodo in cui affronterà i temi di una possibile salvezza dopo la distruzione della guerra, dopo Auschwitz: ma sarà il Giovanni dell’Apocalisse.
Il problema religioso era dunque il basso continuo dell’indagine quasimodiana.
E non in senso generico. In una conversazione critica con Ferdinando Camon del 1996 pubblicata dallo stesso nell’antologia “Il mestiere di poeta” egli dichiara:
“Il mio problema religioso riguarda il dio cristiano. Non si può pregare di un dio generico. Io non ho mai dato manifestazioni di ateismo: questa è la vera causa dei dissidi con i movimenti politici di sinistra”.
Parole chiave dalle quali si deducono alcuni elementi molto importanti. Che Cristo stava sempre lì, aveva attraversato la sua parabola contraddittoria ma non era stato eclissato; che un dio va pregato. Quasimodo non dice: non si può pensare a un dio generico. Dice pregare. Come terza cosa c’è la confessione del vero dissidio con le sinistre che allora si riconoscevano in un credo che voleva diventare esso stesso religione. Ha ribadito questi concetti anche nell’ultima intervista che gli fu fatta, quella di Claudio Casoli per la rivista edita da “Città Nuova” “Ekklesia“, concludendo con la frase: “Io sono un cristiano, e non potrei non esserlo”. L’intervista uscì postuma.
L’incontro, lo scontro, fra la propria storia umana e la storia pubblica, produce , come dicevo. la nascita del cosiddetto Quasimodo civile. La raccolta “Giorno dopo Giorno” viene pubblicata nel 1947, ed è una raccolta di poesie piene di domande. Nel ’46 era stata date alle stampe la traduzione del Vangelo giovanneo. Ora, un anno dopo, ecco l’incapacità del poeta di rispondere al quesiti che si pone sul male e, insieme, la speranza che la pietà dell’uomo non sia definitivamente morta negli orrori e nelle violenze della guerra.
Ha ragione Carlo Bo quando dice che l’interrogazione in questo libro scardina tutti gli elementi poetici; e infine fa parte della figura sentimentale di Quasimodo sempre ondeggiante, incline al bisogno del forse e alla cautela dell’approssimazione.
La raccolta si apre con una lirica che echeggia il Salmo 138 di Davide “Sui fiumi di Babilonia“. Famosissima. Prosegue con la richiesta che fa a se stesso se neppure “la morte per amore” ( palese allusione alla Croce) riesca più a consolare i vivi con la desolazione che “la croce gentile ci ha lasciati” e, più avanti, nella lirica “Forse il cuore” l’ipotesi che ormai le parole non servano più:
“le parole ci stancano, / risalgono da un’acqua lapidata;/ forse il cuore ci resta, forse il cuore…”
Nella lirica “Di un altro Lazzaro” si avverte un’aria di tramonto e di inizio insieme, la necessità di un qualcosa che vada oltre e spezzi le barriere interne dell’uomo così come Cristo rovesciando la sua pietra, ha spezzato le barriere della morte.
Il rapporto vita-morte è posto in “Giorno dopo giorno” in termini ampi, con un disteso riferimento all’amore, a Cristo, alla croce quale prima non era avvenuto. E’ una fuga dall’astratto, un discorso pieno di possibilità quello che egli pone.
I miti sono ormai lontani, l’urgenza di rifare l’uomo lo assilla. Ma come fare? Lentamente prevale il poeta che, non trovando risposte, si rifugia nella positività della mente. Egli non risolve però alcuno dei suoi problemi, il cuore è sempre in agitazione, e si delinea attraverso le sue parole l’immagine del “mostro” “che si morde le mani per la fame e la guerra che non tace mai”. Incombe, oh profezia, lo spettro dei conflitti nucleari, dell’idrogeno, che e “in nome del diritto brucia la terra”, quando i morti non potranno dire ai morenti alcuna parola di speranza.
Siamo al 1957, al lancio del primo Sputnik. Un evento che ci ha fatto sentire orgogliosi della nostra intelligenza. L’uomo aveva abbattuto le colonne d’Ercole dello spazio. Il poeta condivide l’entusiasmo generale e scrive il saluto “Alla nuova luna“: pochi versi che dovevano tirargli addosso una serie di polemiche e riprovazione da parte della stampa cattolica che non aveva capito come in quell’elegia fosse implicito l’asserto che mai l’uomo, con tutte le sue conquiste, sarebbe stato simile alla divinità. Scrisse due invettive chiamando i suoi ottusi censori “pidocchi di Cristo” , sconvolto nel vedersi attaccato proprio al cuore della sua fede che era stata altalenante, ma non aveva mai messo in dubbio la Croce.
Con quell’amen che chiude la poesia egli voleva dire che c’era ben poco di buono da aspettarsi da quel luminare messo nel cielo dallo straordinario e temerario sapere umano perché l’uomo avrebbe tramutato anche quella conquista in una ragione di conflitto. Di fronte alla scienza e al progresso materiale, che pure amava e ammirava, ebbe sempre un atteggiamento do sospetto. Scrisse:
“…per vivere bisogna fabbricare gli strumenti di morte: cosi si occupano più operai, ingegneri, scienziati, così le industrie prosperano. Invece non è altro che un macabro esercizio di follia che si estende ai due lati del filo spinato, una macchina per uccidere e per uccidersi: è il paziente collaudo di una morte incerta, sul radar di attacchi improvvisi e micidiali.”
Sarebbe dunque giusto leggere la poesia “Ancora nell’inferno” (quella in cui si teme che l’idrogeno possa un giorno distruggere la terra) e la poesia “Alla nuova luna” in un ideale parallelo: l’una è il controcanto dell’altra.
In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari nel cielo
e al settimo giorno si riposò.
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte di ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
Come a dire che se la genialità fa diventare superuomini, essa obbliga all’umiltà e alla meditazione sull’inevitabile proprio limite. Quella dell’uomo è insomma una forza gregaria. Tornando alla sua storia personale non si capirebbe, se così non fosse, perché egli andasse per strade che gli si ritorcevano contro, calpestando, per sua stessa ammissione, ciò che più desiderava.
L’ultima raccolta di Quasimodo, “Dare e avere“, traccia un bilancio della sua vita.
Siamo ai consuntivi. Spesso avvertiamo un senso di vuoto nelle sue parole. Ma il vuoto del poeta aspira ad altri riempitivi, certo egli non ha più epifanie da donarci. Il vento, che aveva avuto in tutta la sua poesia una funzione memoriale, ora distorce le voci e gli echi. Talora si ripetono gli interrogativi di “Giorno dopo giorno“, ma in una misura assolutamente personale. Si chiede riprendendo le parole del Responsorio dell’Officio dei Defunti: “Timor mortis conturbat me?”
E l’idea della morte, che era stata presente nel suoi versi fin da quelli della lontana giovinezza, si fa continua e assillante. Qui c’è la cronaca dei suoi ricoveri in ospedale, la prima volta a Mosca per un infarto che lo inchiodò a letto a lungo; la seconda all’ospedale di Sesto San Giovanni. C’è l’eros di “Poesia d’amore“, e in un certo senso c’è la resa a una battaglia che lo ha sfibrato. Se in “Acque e terre” aveva testimoniato il timore per la morte spirituale, la morte eterna, quella che ci colpisce se la vita è stata sperpero e negligenza, qui è solo il pensiero della morte fisica con i suoi contorni ad essergli presente, un tarlo che vibra sicuro come un insetto della terra”.
Ma resta sempre il pungiglione che tutto non può finire quaggiù. Nella poesia “Una risposta“, scritta – come dicevo – contro i detrattori dell’inno allo sputnik, aveva parlato della “fermezza della vita e della morte non contrarie”. In “Dare e avere” immagina che un giorno “un altoparlante improvvisamente vuoto di suoni/ dirà il suo nome libero dall’aldilà.” E ancora – quasi già lontano dai giorni della terra – si sente superato “dall’assurda differenza che corre/ fra la morte e l’illusione del battere del cuore”.
Già in “Acque e terre” Quasimodo tende a all’unione degli opposti, il bene e il male, la speranza e il disinganno, la morte e la vita. Si possono scegliere delle poesie e usarle come reperti per dimostrare la sua necessità di unire il positivo e il negativo: ma tutta l’opera del nostro è in effetti un desiderio di Bellezza e di Assoluto, la Bellezza che secondo Dostojevskij salverà il mondo. Prima però bisogna morire. Nel suo “Discorso sulla poesia” tenuto a Stoccolma in occasione dell’assegnazione del Nobel, fra i molti temi toccati Quasimodo si sofferma anche su questo molto sofferto tema e afferma: “Il poeta non teme la morte, non perché egli entri nella fantasia degli eroi, ma perché la morte è una visitatrice continua dei suoi pensieri e quindi l’immagine di un dialogo”. La sua idea di Bellezza nasce dunque dalla sfera più oscura. Pur vivendo il presente e la sua legge – cioè lo sdoppiamento fra il culmine dei desideri e l’insignificanza – cerca le condizioni per superare la paura della morte fisica, quella che hanno tutti gli uomini, e appunto immagina di allagarsi libero nell’aldilà.
Vorrei a questo punto fare un breve cenno sulla qualità della parola quasimodiana alla quale egli non attribuisce mai poteri irreali. Quasimodo è un classico. Per lui la parola è manifestazione precisa di un’idea. Anche per questo ha scelto di tradurre il Vangelo secondo Giovanni là dove il Verbo è l’immagine perfettissima di Dio, anzi è Dio. Sedotto dalla lettura della Bibbia, egli conosceva i passi dell’Antico Testamento – i Proverbi, l’Ecclesiaste, la Sapienza – dove si fa l’esaltazione della Parola; dono di Dio che rimane in eterno.
In maniera incredibilmente teologica Quasimodo ci dà questo verso: “Il tuo dono tremendo di parole, Signore, sconto assiduamente”. Là dove si riconosce che la parola è dono, un dono che rimane in eterno (perciò dice assiduamente). E per di più un dono tremendo, da scontare, come tutto ciò che è divino.
In un gioco continuo di silenzio e di ascolto, egli arriva a pregare per il dono della parola: “Pietà, che io non sia senza voci e figure/nella memoria un giorno”.
Con la conseguenza che il démone della perfezione ( c’è sempre l’analogia con il Verbo) può perfino spingerlo a una sensazione – o a un desiderio – di natura matematica, verso “la quiete geometrica dell’Orsa”.
Come dicevo all’inizio, il mio Quasimodo quello che ho conosciuto e frequentato appartiene agli ultimi anni. Di questa fase finale della sua vita ho spesso parlato e scritto, specie durante queste celebrazioni del centenario della sua nascita in cui, tra l’altro , è stato pubblicato il carteggio del poeta a me diretto non per mia volontà, ma per iniziativa della provincia di Messina proprietaria delle lettere da me cedute a un famoso collezionista, di poi battute all’asta e acquistate dall’amministrazione siciliana.
Il carteggio si intitola “Senza di te la morte” – una frase tolta da una lettera del poeta, ed emblematica dell’inquietudine e del limite che patì in ultimo quando, ormai anziano, si trovò a fare i conti con una situazione privata molto difficile. Si tratta di trenta lettere, corredate da dediche e poesie: sono lettere estive, quando le cosiddette vacanze ci dividevano: io con i miei bambini che allora erano piccoli in alta montagna ( è sempre stata la mia passione), lui – che per via del cuore non poteva salire sopra i seicento metri) al mare. Non sono molte, ma altamente significative e la curatrice, la prof. Musolino, esperta studiosa dell’opera del poeta, ne analizza lo spirito e i contenuti mettendo in luce i due binari sui quali si dipanano: l’eros e la morte.
Sono scritti umani, di un uomo che ricerca disperatamente una totalità assoluta in un amore “condannato” dalla differenza dell’età, un amore geloso e “pieno di velluti e di pugnali”, come egli scrive; sul quale si stende inesorabile l’ala della morte, unica certezza fra tante illusioni. L'”ammalato di Bellezza eterna”, come egli stesso si era definito, sembra dare una nuova forma di opposizione al destino che non risponde alle sue domande: e dico destino, a questo punto, non Dio. Inventa manovre ritardatrici della morte, si dichiara fedele alla vita in tutte le sue direzioni, eppure ha momenti di grande sconforto in cui si sente come un emigrante che, seduto per terra, aspetta il compiersi della vita. L’immagine è tolta da una poesia del 1965, scritta all’ospedale di Sesto San Giovanni. L’ultimo Quasimodo cede a tratti al nichilismo e alla rassegnazione. In “Thánatos Athànatos” si era detto convinto che quando l’uomo rinuncia alla fede in Cristo si priva di ogni certezza che non sia quella della morte. Alludeva alla morte eterna. Di quella, nella sua raccolta “Dare e avere” non parla. La sua preoccupazione è far quadrare qui un qualcosa che non quadra. I malanni fisici non possono essere elusi, il tempo rotola. Con me c’era – è vero – un grande rapporto di confidenza, di dialogo, di comunicazione profonda che lo rendeva avido e lo attacca al mondo.
Vuole tutto, e scrive che questo è “senza limiti”.
Rileggendo di anno in anno molte delle sue pagine, mi sono imbattuta in uno straordinario brano critico che aveva scritto nel 1953 a proposito del film “Luci della ribalta” di Chaplin. A distanza – un’anticipazione dell’estrema sua parabola esistenziale.
In questo saggio Quasimodo analizza con crudeltà e tenerezza l’amore del vecchio Calvero per la giovane Terry. Giustifica l’amore dell’anziano clown perché, dice, l’amore non fa parte dell’estetica. Ma intuisce che si tratta di una tragedia. La storia di Calvero che cade dalla scena nel tamburo, trova per chiudersi, scrive Quasimodo, un verbo terribilmente ambiguo, funebre. “Sono rimasto incastrato”, esclama il povero guitto prima che la sua vita si concluda. Restare incastrato. Un evento terribile dove il corpo e la ragione pesano alla stessa maniera. Una metafora, una strada senza via d’uscita per Quasimodo. Incastrato a sua volta dal male dell’amore, dal male della morte, dal male di sentirsi confuso mentre il tempo lo trascinava fuori dal tempo, quando ancora confabulava di giovinezza con il suo alter-ego davanti a uno specchio.
Desiderava di rileggere Sant’Agostino ma non ne ebbe il tempo superando la barriera della ricerca per affondare finalmente nella certezza, ma non ne ebbe il tempo.
Del resto in ultimo, la sua ansia di Dio si era un po’ allontanata dai grandi testi e seguiva vie non appariscenti: i segni di croce furtivi, le conversazioni (quasi sempre notturne) con alcuni religiosi tra cui con il rimpianto amico comune Nazareno Fabbretti, le visite nelle chiese, le confessioni che mi faceva nei momenti supremi, forse qualche preghiera nascosta. Dico forse, perché tutto era così sfuggente, così “liquido”, secondo un aggettivo che lui prediligeva.
Naturalmente potrei continuare a lungo. Ma credo di aver delineato a sufficienza l’impervia natura della spiritualità quasimodiana. Essa ha prodotto, in taluni casi, poesie di remissione totale a Dio, poesie che sono autentica preghiera.
Del resto la sua storia , pur essendo passata attraverso la palude delle passioni, è stata dominata dall’energia dei grandi desideri e dei grandi dubbi, “i dubbi sono il guanciale dei santi” disse Paolo VI; e soprattutto non è mai venuta meno al credo di un raccordo fra essere e non essere, dal punto di vista dell’eternità.
NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 11.3.2002 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.